di Miria Gambardella e Silvia Fredi
Foto di Dainis Graveris
A PARTIRE DALLE PAROLE
“Siamo così abituati alla natura apparentemente razionale del nostro mondo che facciamo fatica a immaginare che possa accadere una qualsiasi cosa che non possa essere spiegata dal buon senso.”
Carl Gustav Jung
Con la sigla MGF si fa riferimento alle Mutilazioni Genitali Femminili o, a seconda dei contesti, al variegato insieme delle Modificazioni Genitali Femminili. Solitamente trattato dal punto di vista medico o legale, è un tema dalle profonde implicazioni socio-culturali e politiche.
Già a partire dalla scelta del termine, si possono osservare delle distinzioni di posizionamento da parte di chi denuncia le pratiche in tutte le loro manifestazioni e chi tenta di salvaguardarne i significati chiamando in causa la libertà di scelta e la forza rituale. Queste interpretazioni si intersecano con forme di appropriazione e mobilizzazione che non sempre riescono a rendere conto di tutte le sfaccettature e la complessità del fenomeno.
L’espressione “mutilazione” viene a ridurre il fenomeno ai suoi risvolti fisici, esprimendo immediatamente dei giudizi di merito: una donna mutilata, nella prospettiva occidentale, è una persona “a cui manca un pezzo”, “diminuita”, manchevole di una sua parte. Viene criticata particolarmente anche dalle persone coinvolte in queste pratiche, le quali talvolta rivendicano la loro “interezza”, associando significati positivi, di crescita e di integrazione sociale alle MGF.
L’ambito sanitario si presenta come quello socialmente legittimato – a livello internazionale – per fornire una definizione ufficiale di mutilazioni genitali femminili, che l’OMS formula come: “tutte le pratiche di rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni o ad altre alterazioni indotte agli organi genitali femminili, effettuate per ragioni culturali o altre ragioni non terapeutiche”. I rischi identificati dalla medicina occidentale coinvolgono la salute fisica, psicologica e sessuale di giovani donne e bambine sottoposte a una pratica “riconosciuta internazionalmente come una violazione dei diritti umani e una forma estrema di discriminazione di genere”.
Il primo elemento che richiama la nostra attenzione è il fatto che ad essere identificate in quanto vittime di MGF (in questo caso Mutilazioni Genitali Femminili) siano solo donne e bambine, prendendo per automatica ed assodata la corrispondenza tra anatomia (cioè la presenza di organi genitali femminili) e identità di genere.
L’Africa è presentata dal Ministero della Salute italiano come “la patria del fenomeno” in quanto le statistiche riscontrano la principale diffusione delle mutilazioni genitali femminili “presso gruppi ed etnie dei Paesi dell’Africa subsahariana e della penisola arabica” mentre la presenza in Europa è considerata un “effetto dell’immigrazione”. Tuttavia si riscontrano pratiche di MGF anche nel continente asiatico e nel continente americano.
AMBITO SANITARIO E RETORICHE UMANITARIE
Nel 1997 l’OMS ha classificato le MGF in 4 categorie successivamente suddivise ulteriormente per un totale di 8 tipi. Il criterio usato per misurare la gravità del danno è la quantità di tessuto intaccato o rimosso. Si parte dalla rimozione totale o parziale del glande clitorideo (tipo 1), in aggiunta a quella delle labbra interne e, in alcuni casi, di quelle esterne (tipo 2). MGF di tipo 1 e 2 sono anche chiamate escissioni. La pratica conosciuta come infibulazione (tipo 3) è situata all’apice in ordine di gravità e prevede il restringimento dell’apertura vaginale con la creazione di un sigillo di copertura tramite l’apposizione delle piccole o grandi labbra (con o senza tipo 1). Il Ministero della Salute italiano la definisce la procedura “più radicale” che “l’immigrazione ha fatto conoscere anche in Europa e in Italia”.
Tra le pratiche incluse nella categorizzazione dell’OMS troviamo anche “altre procedure dannose per i genitali femminili per scopi non medici” (tra cui i piercing, tipo 4).
La rimozione totale o parziale della punta visibile della clitoride coinvolge la metà delle sottocategorie di mutilazioni ma, trattandosi della parte del corpo per eccellenza associata al piacere sessuale femminile, è situata al centro degli argomenti di denuncia. Si tratta di uno dei 5 tipi di motivazioni che l’Unicef identifica come i “pregiudizi” alla base delle MGF:
- Ragioni sessuali: soggiogare o ridurre la sessualità femminile
- Ragioni sociologiche: es. iniziazione delle adolescenti all’età adulta, integrazione sociale delle giovani, mantenimento della coesione nella comunità
- Ragioni igieniche ed estetiche: in alcune culture, i genitali femminili sono considerati portatori di infezioni e osceni
- Ragioni sanitarie: si pensa a volte che la mutilazione favorisca la fertilità della donna e la sopravvivenza del bambino
- Ragioni religiose: molti credono che questa pratica sia prevista da testi religiosi (Corano)
Il Corano è l’unico dei “testi religiosi” menzionati, tuttavia da questo testo non emerge alcuna corrispondenza tra MGF e fede islamica (Fusaschi).
È interessante notare che la definizione stessa delle MGF si riferisce a procedure effettuate “per ragioni culturali o altre ragioni non terapeutiche”, nonostante tra le motivazioni identificate vi siano anche ragioni di tipo sanitario e igienico. Queste ragioni però non si basano sulle stesse premesse scientifiche previste dalla medicina occidentale e adottate come criterio per la definizione dei diritti a livello internazionale.
Il fatto che l’OMS presenti le MGF come “una violazione dei diritti senza giustificazione medica” lascia intendere che invece motivazioni sanitarie certificate come legittime dagli organismi internazionali sono considerate legalmente e socialmente accettabili.
Sorge spontaneo chiedersi come mai, nella categoria degli interventi effettuati per ragioni non mediche, non vengano situate TUTTE le forme di modificazioni o mutilazioni corporee effettuate su organi genitali, maschili o femminili, dalla circoncisione alla labioplasica (correzione estetica degli organi genitali femminili che prevede la riduzione delle labbra).
Le questioni discriminanti in questo caso sono il tema del consenso, socialmente e legalmente collocato dalla medicina occidentale alla soglia della maggiore età, la dimensione di genere e, in un’ottica intersezionale, classe e origini.
La sostanziale distinzione tra MGF e circoncisione maschile risiede nel primato della ragione sessuale che risulta spesso una delle uniche ad essere conosciute. La convinzione che le MGF siano praticate esclusivamente “per soggiogare o ridurre la sessualità femminile” (Unicef) la rende una pratica inaccettabile a differenza della circoncisione, nonostante anche quest’ultima sia praticata sugli organi genitali di minorenni non considerati in grado di esprimere il proprio consenso. Per quanto riguarda gli interventi di chirurgia estetica la discriminante è invece l’età del consenso, oltre che la classe sociale di appartenenza nonché le risorse economiche a disposizione.
È un dato di fatto che le MGF abbiano, a livello medico, una serie di controindicazioni che non concernono solamente il piacere sessuale. Tra le conseguenze più frequenti ci sono quelle a breve termine – infezioni, emorragie – che sono legate prevalentemente al contesto in cui vengono svolte le operazioni, con strumentazione non sterilizzata e in mancanza di condizioni igieniche adatte a qualsivoglia tipo di “chirurgia”. Le conseguenze a lungo termine si sviluppano soprattutto sulle persone che hanno subito la pratica dell’infibulazione (tipo 3) e consistono in fistole, dolori cronici, complicanze nel parto, infezioni vaginali e alle vie urinarie recidive, causate dall’impossibilità, data da quella particolare ricostruzione anatomica, di far defluire i fluidi corporei. Inoltre, per avere rapporti sessuali e per partorire, è necessario riaprire l’apparato vulvare e l’operazione viene, in alcuni casi, fatta e ripetuta ogni volta che lo si ritenga necessario. Inoltre alcune persone riportano problemi nella sfera psico-sessuale, soprattutto nei contesti di migrazione quando si confrontano con le coetanee autoctone e con una visione completamente diversa della sessualità. è da sottolineare che questi aspetti dipendono soprattutto dal vissuto e sono spesso correlati allo stigma sociale riservato alle “donne mutilate” nei contesti occidentali, mentre una fetta delle soggettività coinvolte rivendica la modificazione del proprio corpo come pratica necessaria e desiderata. Soprattutto nei contesti migratori occidentali, negli ultimi anni i servizi sanitari si sono trovati ad operare con donne e persone i cui corpi sono stati manipolati con MGF tradizionali. Nei servizi territoriali italiani, si rileva una scarsa conoscenza del fenomeno e soprattutto delle sue implicazioni culturali. In molte strutture ospedaliere e ambulatoriali si verificano incresciosi episodi di misconoscimento, di razzismo e di discriminazione delle donne con MGF.
Nonostante il grande stupore e le voci indignate della medicina, giova ricordare che – proprio nel contesto occidentale – nel XIX secolo, veniva praticata la clitoridectomia chirurgica, nelle cliniche e del tutto alla luce del sole, con i potenti mezzi della medicina moderna, su persone affette da quella che all’epoca veniva nominata come “isteria”, per correggere sintomi quali onanismo e masturbazione.
Inoltre, proprio nel nostro qui e ora storico, vengono normalmente effettuate, negli ospedali delle nostre civilissime nazioni, interventi di assegnazione del genere a neonati inconsapevoli. Nati con variazioni biologiche (morfologiche e/o relative all’apparato endocrino), i genitali dei neonati intersexsono modificati senza alcuna giustificazione medica, ovvero senza scopi terapeutici, per essere “normalizzati” in quella costruzione del tutto culturale che è il binarismo di genere. Non c’è dubbio che un* neonat* non possa dare il suo consenso per una MGF né in Africa né in Europa o negli USA, che la volontà sia espressa dai genitori e che questi interventi – tutti, ovunque vengano praticati – rispondano all’esigenza di far corrispondere dei corpi a costruzioni culturalmente significate. Queste operazioni (che spesso avvengono, dalla nascita alla pubertà, in più riprese) hanno spesso impatto molto forte sulla salute psicologica e sulla salute sessuale delle persone intersex, che stanno pian piano iniziando a rivendicare il proprio diritto all’integrità.
Le proposte, sorte in vari contesti nazionali, di permettere l’esecuzione delle MGF in regime ospedaliero e con l’ausilio delle strutture sanitarie moderne, che potrebbero certamente promuovere una sorta di “riduzione del danno” abbattendo quantomeno i disturbi a breve termine sulla salute, sono state apertamente rifiutate con motivazioni di ordine legale (il codice deontologico dei medici occidentali, oltre alle leggi nazionali, ne escludono la possibilità) ed etico.
Parallelamente, sono nate alcune esperienze di servizi dedicati alle persone con MGF nei paesi europei ed anche in Italia, dove vengono assistite molte donne per patologie correlate e gravidanze e in cui si svolgono anche interventi di ricostruzione su coloro che lo richiedono. In queste strutture specializzate si praticano la ri-esposizione della clitoride (le MGF intervengono solo sulla parte esterna dell’organo, la porzione restante – maggioritaria – può quindi essere riposizionata restituendo la sensibilità dei genitali esterni) e la de-infibulazione. Quest’ultima prevede la ri-apertura dell’apparato e la ricostruzione delle labbra interne ed esterne della vulva.
In questo contesto di incontro/scontro di aspetti culturali diversi, gli specialisti riportano casi in cui sintomatologie considerate patologiche a livello medico non sono riconosciute come tali da chi le presenta, e una richiesta di interventi ricostruttivi da parte di persone che desiderano conformarsi ai modelli occidentali come forme di empowerment personale, in alcuni casi addirittura senza aver realmente subito una MGF. Inoltre non sono poche le donne di origine straniera che si rivolgono a questi servizi richiedendo di essere sottoposte, o di sottoporre la propria prole, a interventi di MGF.
SIGNIFICATI: UNA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA
In campo antropologico le MGF fanno parte della categoria deiriti di iniziazione, ovvero momenti di transizione da uno status ad un altro: forme di umanità, di genere, età e ruoli socialmente costruiti nelle varie culture. Queste pratiche sono funzionali, quindi, alla costruzione personale e collettiva dell’identità sociale degli individui. In questo senso “si potrebbe parlare di atti di istituzione, perchè attraverso le varie forme di escissione e infibulazione si verrebbe socialmente a istituire la differenza” (Fusaschi: 2003, p.81)
I rituali hanno un’efficacia simbolica, in quanto agiscono sulla rappresentazione del reale concretizzando ruoli e comportamenti. è così che “ciò che spesso viene percepito nel mondo occidentale come primitivo, barbaro, oppure nei termini di abuso, dal punto di vista di colei che ne porta i segni sul corpo diviene segno distintivo della femminilità che così, dal punto di vista degli attori sociali, si esprime nella sua pienezza anche per via del riconoscimento sociale di coloro che la circondano”
Fusaschi 2003: p.83
In alcuni contesti, come ad esempio l’etnia Gourmantchè in Burkina Faso, la pratica dell’escissione è strettamente connessa con l’idea della fecondità. I Dogon del Mali ritenevano invece, secondo Griaule, che gli esseri umani venissero al mondo con attributi sessuali appartenenti all’altro sesso, che quindi andavano corretti entrambi: prevedevano la circoncisione del prepuzio maschile e l’escissione della clitoride, senza le quali, ogni individuo era considerato al contempo maschio e femmina. Il caso della infibulazione, invece, colloca il suo significato simbolico sul controllo della sessualità femminile, connettendosi con i concetti di purezza, verginità e pulizia.
È quindi la costruzione culturale (binaria) dei generi, con i relativi (dis)equilibri di potere, il pilastro alla base di molte tradizioni di MGF, una base che – tra l’altro – anche la tradizione occidentale condivide.
In contesto migratorio è avvenuta una ri-significazione di queste pratiche rituali, che nei paesi di migrazione assumono ulteriori e aggiuntivi significati antropologici, connessi ai legami “a distanza” con le comunità d’origine e al confronto, fatto spesso di una certa aggressività culturale colonialista e di resistenze, con la cultura maggioritaria in cui sono inseriti e percepiti come “corpi estranei”.
Carla Pasquinelli, autrice di “Antropologia delle mutilazioni genitali femminili. Una ricerca in Italia” spiega che il termine “mutilazioni” è stato adottato a partire dalla III Conferenza del Comitato inter-africano sulle pratiche tradizionali rilevanti per la salute di donne e bambine/i e sottolinea che “non è però così che le chiamano le popolazioni dei paesi in cui si praticano, che non accettano la forte connotazione negativa contenuta in tale espressione. Ogni gruppo usa i termini tramandati dalla propria tradizione che variano molto da un’etnia o da una regione all’altra, a seconda anche di quale tipo di mutilazione si tratta.” (Pasquinelli 2000).
La sua ricerca inserisce le MGF in un complesso sistema economico e simbolico che svolge una funzione determinante nella riproduzione sociale. Secondo l’antropologa, il fenomeno può essere compreso solo se inserito nel contesto dell’istituzione matrimoniale del prezzo della sposa che fa dei corpi femminili oggetti di disciplinamento.
“Le mutilazioni dei genitali femminili sono la forma stessa in cui il potere si iscrive nei corpi, producendoli, dal momento che esse non danno luogo a procedure coercitive di condizionamento bensì alla costruzione stessa dei corpi.”
Pasquinelli 2000
Michela Fusaschi, antropologa, da vent’anni vive e lavora in Ruanda studiando la pratica del Gukuna, una forma di massaggio genitale praticato da molte donne e incluso nella categoria 4 delle MGF secondo l’OMS. Fusaschi menziona forme di razzismo differenziale per descrivere come molte donne bianche facciano ricorso a questa pratica senza incorrere in sanzioni, sottolineando l’esistenza di discriminazioni intra genere (all’interno di uno stesso genere). All’esempio della chirurgia estetica – a disposizione di chi può permettersela nei paesi occidentali – possiamo aggiungere piercing e altre modificazioni accettate solo se praticate su alcuni corpi in determinate condizioni.
Fusaschi propone di parlare di modificazioni genitali piuttosto che di mutilazioni considerando che la scelta del termine permetta di esprimere meglio la pluralità delle esperienze vissute da chi ricorre a tali pratiche: ci sono donne che riconoscono nel Gukuna una forma di oppressione, altre che al contrario lo vedono come uno strumento di empowerment, chi lo pratica per tradizione e chi semplicemente ne trae godimento (in quanto collegata anche a pratiche sessuali particolari, come il Kuniaza, che mirano al raggiungimento del piacere).
L’esempio delle donne ruandesi racconta di una grande varietà di percezioni che rendono impossibile l’omologazione di ogni soggettività sotto il cappello unico di vittime passive di un atto imposto. Riflettendo sull’impatto coloniale, Fusaschi sottolinea come molte forme di dominazione maschile in Ruanda siano frutto di un’eredità di matrice cattolica. Afferma che l’aumento di alcune pratiche possa essere la risposta locale a strutture egemoniche di potere globali. Questo a riprova dell’inesistenza delle culture come strutture monolitiche e pure.
Con questa breve panoramica antropologica abbiamo cercato di dare conto, in maniera sicuramente non esaustiva, di una varietà di significati, simbologie e visioni emiche delle MGF, al di fuori dell’orizzonte condiviso da un noi geograficamente, culturalmente e politicamente collocato.
LENTE ETNOPSICHIATRICA
Controversa ed interessante è la prospettiva etnopsi, che si occupa di salute mentale in un’ottica culturalmente orientata, in particolare rivolgendosi a migranti nel contesto europeo. Attraverso la lente di questa disciplina sono stati osservati diversi casi di persone impossibilitate a ricevere il rito della MGF (ma la cui cultura di appartenenza lo prevede) che soffrono di disturbi psicosociali e malesseri anche gravi. Infatti, secondo Tobie Nathan, nei contesti originari (si parla in questo caso soprattutto di regioni africane), le pratiche modificatorie dei corpi sono parte di un processo di “fabbricazione” dell’essere umano, di integrazione nella società e di passaggio iniziatico. Venendo a mancare – anche perché vietato dalla legge nei paesi di arrivo – questo tipo di ritualità, molte persone finiscono per sviluppare sentimenti di incompletezza, sradicamento, alienazione, esclusione.
Partendo dall’assunto che la cultura non soltanto influenza i nostri modi di vivere ma anche dà forma alla nostra psiche, l’escissione e pratiche simili, sarebbero (nei mondi tradizionali) un dispositivo necessario ad alcune persone per trovare il proprio posto, per sentirsi uman*, complet*, soprattutto in contesti in cui vi è un continuo movimento di acculturazione forzata nei confronti delle soggettività non autoctone.
Secondo Nathan quindi, la cura per queste persone risiederebbe nell’accesso al rito, che – al netto delle ripercussioni fisiche – restituirebbe un senso di appartenenza, un legame con i propri attaccamenti e la propria comunità, una legittimità all’esistenza di queste persone sofferenti.
LEGGI E DIRITTI IN CHIAVE POLITICA
A livello normativo in Italia la Legge del 9 gennaio 2006, n. 7 – vieta le pratiche di mutilazioni genitali femminile, in particolarel’infibulazione è punita con la reclusione da 4 a 12 anni (pena aumentata di 1/3 se la mutilazione viene compiuta su una minorenne, nonché in tutti i casi in cui viene eseguita per fini di lucro).
La punibilità di questo tipo di reato è estesa anche se compiuto in un paese estero, con l’intenzione di impedire le MGF anche durante i viaggi in patria che le famiglie migranti svolgono periodicamente per ricongiungersi alle proprie origini in maniera temporanea.
Le prime leggi specifiche riguardanti le MGF in Italia sono elaborate nei primi anni 2000 da parte di partiti di destra, e hanno contribuito a creare una normativa che punta il dito sulla dolosità e sulla supposta volontà di danneggiare donne e bambine tramite queste pratiche – mentre sappiamo che l’intento delle famiglie non è certo il dolo nei confronti de* propri* figli*, ma si regge su una struttura molto più complessa di significati – cancellando totalmente il punto di vista emico di quelli che sono dipinti sempre e solamente come vittime e/o carnefici.
La nostra intenzione non è invisibilizzare forme di violenza patriarcale ma, al contrario, mostrarne il maggior numero di sfaccettature possibili e al contempo vorremmo rappresentare una sorta di antidoto contro ogni semplificazione che riduce vissuti molteplici a un’unica interpretazione vittimizzante.
In moltissimi paesi del mondo, soprattutto ma non solo in quelli che presentano tradizionalmente MGF, esistono ad oggi leggi che tendono a criminalizzare queste pratiche. Per ricercare quindi la permanente legittimazione e il perpetuarsi delle stesse, bisogna rivolgere lo sguardo alla consuetudine, alla tradizione e alla necessità – ancora non superata e anzi, spesso acuita dalla diaspora – di integrarsi nei codici e nei significati ad esse attribuite. Laddove norme e sanzioni di natura differente si intersecano, la coattività di quelle sociali e culturali risulta maggiormente vincolante: in molti casi infatti il mancato rispetto può significare l’esclusione e l’isolamento dalla comunità d’origine, che si traduce nella compromissione del futuro delle bambine e delle donne non conformate all’ordine sociale. Da questo punto di vista viene a cadere il presupposto del “dolo volontario”, sostituito invece da un’idea di “tutela”, che pur essendo contraria alla prospettiva occidentale, è del tutto sincera e presente nei contesti originari e di migrazione.
La legislazione italiana si basa su una retorica umanitaristica, basata sul rispetto dei “diritti umani”, che difficilmente si confronta con quelli che si definiscono come “diritti culturali”, rifiutando il dialogo e la considerazione dei significati profondi e fondativi che queste pratiche rappresentano.
La retorica utilizzata su questo argomento nel nostro paese è molto orientata a suscitare sentimenti di orrore, pietà e vittimizzazione, e spesso rincorre e ripropone – senza neanche troppi eufemismi – una logica di stigmatizzazione legata al fenomeno delle migrazioni, le quali contagerebbero e inquinerebbero la nostra “Europa patria dei diritti” con le loro pratiche barbare. In questo senso si intercetta anche una grave strumentalizzazione dei corpi femminili in senso politico, laddove la preoccupazione per la salute femminile delle migranti finisce dopo un paio d’ore di convegno, e nella realtà sono noti i dati sull’esclusione, sulla stigmatizzazione, la vittimizzazione e sul difficile accesso delle soggettività migranti ai servizi sanitari nazionali.
PROGETTO EMBERÁ WERA
Tra le comunità colombiane di etnia Emberá Chamí, protagoniste resistenti della colonizzazione spagnola, si registrano pratiche di MGF di tipo 1 realizzate appena dopo la nascita da parte di parteras (ostetriche tradizionali), in un’ottica di curación: secondo la tradizione quando la clitoride risulta “troppo sviluppata” va corretta per motivi estetici e sociali, nel convincimento che possa crescere fino a divenire come un pene maschile.
Non vi è dato certo su quando né dove questa pratica si sia originata, alcune ipotesi la mettono in connessione con la stretta convivenza degli Emberá Chamí con le popolazioni afrodiscendenti presenti nelle loro zone dai tempi della tratta degli schiavi, e viene descritta spesso, da vari rappresentanti della comunità stessa, come un rito acquisito con la colonizzazione.
Nel 2007, un caso di cronaca riguardante la morte di una bambina per dissanguamento in seguito ad una curación, riceve le attenzioni mediatiche nazionali ed internazionali. In questo frangente furono numerosi le voci che diffusero discorsi di condanna tout court nei confronti della comunità Emberá Chamí. A seguito del dibattito scaturito, la comunità nativa stessa si mette a disposizione, nell’ambito della UNFPA (Fondo delle Nazioni Unite per le Popolazioni), con altre istituzioni e ONG colombiane, per promuovere un progetto di azione a contrasto delle MGF e di ricerca, che fosse partecipato e condiviso. Come conseguenza del progetto, la CRIR (Consejo regional Indígena del Cauca, partecipante al progetto) arriva ad esprimersi con una sospensione biennale della pratica e annuncia per il 2010 la definitiva eliminazione dell’escissione.
Le azioni messe in campo da Emberá Wera sono diverse: vengono creati spazi e momenti di confronto sul tema delle MGF, anche in una logica interculturale come l’incontro Salute Interculturale(2010), in cui tra le tematiche trattate compaiono sia aspetti scientifici sia saperi e ruoli tradizionali nativi. In questo contesto il progetto intende trovare, tramite il dialogo, un punto comune tra le varie prospettive che vada a focalizzarsi nella tutela della salute e della vita. La maggior parte dei laboratori attivati è proposto principalmente alle donne, con la formazione rivolta a leader femminili e insegnanti rispetto alle problematiche relative l’escissione, con l’intento di sensibilizzare le partecipanti all’esercizio dei loro diritti, a contrasto delle varie forme di violenza di genere presenti nella società nativa (tra cui la violenza domestica, economica, istituzionale e le MGF).
Con queste azioni Emberá Wera si propone di indurre un cambio culturale che, accompagnato dalla normativa e dalla sua prevista assunzione da parte della popolazione, vada nella direzione dell’eliminazione dell’ablazione della clitoride.
Henández Palacio conduce una ricerca qualitativa, nel 2015, con lo scopo di valutare i punti di forza e di debolezza del progetto nonché i suoi risultati, in un’ottica critica e propositiva per future iniziative. Dalle interviste effettuate sul campo emerge che effettivamente, la pratica delle MGF è stata molto disincentivata e risulta in recessione. Secondo quanto dichiarato però, la normatività e la punibilità associate alla pratica sarebbero il motivo principale di questo abbandono. Tuttavia si riscontra che molte famiglie, con la partecipazione ai talleres, hanno iniziato a questionare su questa tradizione, sia in virtù di un lavoro più ampio di riflessione sulle proprie radici culturali e storiche fatto con Emberá Wera, sia perché avendo ricevuto informazioni scientifiche e anatomiche, si sono aperti degli spazi di dubbio sulla reale necessità della curación.
Nonostante alcune dichiarazioni dal tono solenne e vittorioso rilasciate dalla UNFPA, negli anni successivi allo svolgimento del progetto, si sono comunque registrati casi di escissione, soprattutto nelle comunità desplazadas, considerato che il popolo Emberá Chamí è composto di molti sottogruppi e alcuni di questi sono stati obbligati alla diaspora (interna al territorio nazionale) nel corso del periodo coloniale, e che questi ultimi non sono stati raggiunti dalle attività di Emberá Wera.
In generale si può constatare che sì, è cresciuto il livello di consapevolezza e di sensibilità nei confronti della violenza di genere, ma persistono disuguaglianze di potere che rallentano e ostacolano il processo: il ruolo tradizionale femminile è associato e limitato alla sfera domestica, la scolarizzazione femminile rimane bassa e l’età del matrimonio anche. Se da un lato questa condizione ha frenato moltissime donne, dall’altro si potrebbe rivelare una risorsa culturale essenziale rispetto al tema dell’educazione della prole e la trasmissione di saperi, tra cui quelli riguardanti appunto le MGF, in maniera intergenerazionale.
Punti di forza emergono dalla valutazione fatta in una prospettiva di ASD (Azione Senza Danno: riflessione sui progetti di cooperazione internazionale e nazionale proposta per la prima volta dalla studiosa Mary Anderson). Un esempio interessante è rappresentato dall’uso di strumenti comunicativi alternativi come il disegno, per risolvere le difficoltà linguistiche durante i laboratori: pochissime persone conoscono lo spagnolo, la lingua Emberá non è codificata per iscritto ed è stato costruito con il progetto il primo glossario/dizionario. Un’altra strategia che si è rivelata brillante è stata quella di invitare ai talleres anche i mariti e gli uomini della comunità, nonostante il tema e la partecipazione fossero orientati al femminile. Questo ha permesso di coinvolgere, seppur marginalmente, anche la coscienza collettiva maschile e di andare a stemperare i conflitti di genere che si erano creati con le pressioni mediatiche del 2007 e nella prima parte del progetto, quando gli uomini furono travolti dalla stigmatizzazione indirizzata agli Emberá Chamí per una pratica di cui si dicevano all’oscuro, perché parte di un sapere e una ritualità esclusivamente femminili.
Tuttavia alcuni aspetti critici non vanno tralasciati nelle valutazioni finali: la durata di Emberá Wera non è stata sufficiente per produrre il cambiamento prefissato come obiettivo; ha generato una sorta di dipendenza rispetto alla necessità di formazione e agli aiuti economici recepiti dalle partecipanti alle attività di liderazgo comunitario, che hanno potuto in quel frangente riorganizzare la propria economia e la propria vita ma che poi si sono ritrovate vincolate a questo ingresso di denaro che poi è stato sospeso alla fine del progetto. Un altro errore rilevato nella ricerca è relativo al processo di omogeneizzazione culturale, sulla spinta delle organizzazioni internazionali occidentali e della diffusione globale del “nostro sapere” con intenti egemonici, già tema di molte delle nostre dissertazioni.
Un esempio particolarmente interessante riguarda l’assunzione da parte delle donne Emberá partecipanti alle attività laboratoriali, di alcune idee occidentali riguardo la sessualità e le relazioni di coppia come il concetto di amore (in senso romantico, come costruito dalla cultura del primo mondo):
“Los médicos explicaban a nosotros, con eso (clítoris) sienten rico la relación con el hombre. Ese es el amor de uno, a mí me explicaron así en Rio Mistrató
Hernández Palacio: 2015, p.61
Questa idea non è parte dell’universo culturale Emberá, è stata introdotta come incentivo all’abbandono dell’escissione, che invece ne fa parte. Questa azione ha creato una certa confusione in quanto ha spinto molte donne a collocare nei propri organi genitali l’amore, a percepirne l’assenza nelle proprie relazioni sessuali laddove sono state sottoposte ad escissione della clitoride, introducendo elementi completamente estranei alla costruzione emica della coppia e della famiglia così come conosciuta internamente alla propria cultura. Questo tipo di omogeneizzazione culturale può causare danni psicosociali e conflitti interni alle comunità anche molto gravi.
CONCLUSIONI
“Il corpo non si tocca, ma lo si può impunemente ritoccare.”
Fusaschi 2011
Uno strumento che è stato proposto in alcuni contesti nell’ambito della lotta alle MGF, è quello della creazione di riti sostitutivi che possano rappresentare una sorta di transizione, di mediazione tra l’eliminazione totale di una pratica tradizionale (in un pacchetto unico con tutte le implicazioni culturali e sociali che lo caratterizzano) e il perpetuarsi di comportamenti lesivi e rischiosi che mettono in pericolo migliaia di vite. In paesi come il Kenia alcuni progetti in questo senso stanno rappresentando un’alternativa per centinaia di famiglie.
Il rito proposto dal dr. Omar Abdulcadir e dalla sua equipe dell’ospedale Careggi di Firenze – a fronte di una esperienza lunghissima come ginecologo a supporto di persone con MGF e di una richiesta incessante da parte di donne adulte di essere escisse o infibulate in ospedale – è sostanzialmente una lievissima puntura d’ago sulla mucosa esterna che ricopre la clitoride, da effettuarsi sotto anestesia locale, che prevede la fuoriuscita simbolica di pochissime gocce di sangue e non ha conseguenze a breve o lungo termine. Nonostante le accuse di relativismo culturale, questa idea (rimasta irrealizzata) si basa sulla convinzione che, nella direzione del rispetto della salute e dell’integrità, si debba agire in maniera graduale, dialogante e senza negare o eliminare le valenze simboliche dei riti e le loro ricadute sociali.
Un’altra itinerario di mediazione è rappresentato dalla proposta di Matilde Callari Galli, antropologa culturale e docente dell’Università di Bologna:
“.. cerco di esaminare quale dei molti valori in campo appare per la nostra cultura irrinunciabile. Suggerisco di identificarlo nel rispetto dell’integrità fisica di una minore e nel mio dovere di adulto di oppormi a che le siano inflitte torture fisiche e umiliazioni. E allora, la mediazione con i valori dell’altra cultura potrebbe in questo caso essere cercata accettando che la mutilazione sia praticata solo a individui adulti in grado di sapere quali conseguenze essa possa avere.” (Fusaschi: 2003, p. 142)
Fusaschi 2003: p. 142
In questa proposta il perno del discorso viene individuato quindi nel concetto di consenso. Tutte le pratiche di modificazione dei corpi e del genitali, nonché quelle di cura e prevenzione a livello ospedaliero e ambulatoriale, in Italia sono corredate di consenso informato. Viene da chiedersi perché, allora, una soggettività di cultura occidentale/italiana che voglia – ad esempio – effettuare una vaginoplastica riduttiva delle labbra interne per conformare l’aspetto della propria vulva al modello estetico di riferimento, possa firmare un documento ed accedere alla chirurgia plastica, mentre una soggettività con riferimenti culturali differenti non possa – una volta raggiunta la maggiore età e la capacità di intendere e volere – fare altrettanto per ottenere una chirurgia che la conformi, alla stessa stregua dell’italiana, ad un suo modello di riferimento? Provocatoriamente potremmo inoltre chiederci: quale modello estetico relativo all’aspetto femminile non risponde in fin dei conti a canoni di bellezza volti al piacere maschile? Ma come possiamo liberarci dalle strutture di oppressione se non ci consideriamo noi stesse -e ogni altra donna- soggetti politici capaci di operare scelte consapevoli e ne facciamo invece un privilegio di classe?
L’esperienza degli ultimi decenni in merito alla lotta contro le MGF ha dimostrato che non esistono soluzioni rapide e semplici, che la legiferazione delle varie nazioni e degli organismi sovranazionali come l’Onu in senso repressivo e sanzionatorio non sono sufficienti. Questo perché la complessità del fenomeno, relativamente alla significazione, alla trasmissione e alle caratteristiche specifiche delle modificazioni genitali messe in atto, non consente interventi semplicistici e meramente giudicanti o umanitari. Azioni che possano rivelarsi incisive sul lungo periodo devono articolarsi in maniera interdisciplinare coinvolgendo i settori educativi, sanitari e sociali, con un lavoro che coinvolga le comunità interessate non come “fruitori” dei servizi stessi messi in campo, ma come protagonisti, offrendo strumenti di mediazione e di dialogo rispettoso tra le parti.
In “Quando il corpo è delle altre” Fusaschi pone al centro dell’analisi la concezione di integrità del corpo che è giudicata non solo in base al genere, ma anche alle origini e alla dimensione di classe. Ad essere considerate capaci di consapevolezza e autodeterminazione risultano essere esclusivamente donne bianche la cui provenienza coincide con i paesi che generano leggi e classificazioni dominanti. Ai “corpi delle altre” non resta invece che il ruolo di vittime di atti compiuti su corpi inermi e passivi che incarnano il bisogno di essere emancipati dall’intervento salvifico di chi detiene il sapere, quello scientifico e razionale, costruito socialmente in opposizione a tutti quei saperi e quelle pratiche altre che insieme all’etichetta della tradizione portano con sé lo stigma della diversità.
Ogni società – e la nostra (europea e occidentale) non fa affatto eccezione – ha una serie di norme culturali e di modelli (di genere, estetici, etici, famigliari..) con cui le singole soggettività si confrontano, adeguandosi o rompendo gli schemi laddove risulti possibile. è, sempre e dovunque, necessario aprire spazi per queste rotture, per riflettere sulle MGF e sui concetti che la riguardano: sono le espressioni di resistenza emiche le vere occasioni di cambiamento, le uniche – forse – che possono produrre una transizione, a livello endogeno, che sia duraturo e che tuteli dallo stigma tutte le scelte possibili. Ogni iniziativa volta a combattere e superare pratiche di MGF dovrebbe svolgersi in maniera rispettosa delle prospettive altre che ci sono in campo: i diritti umani, da noi considerati come universali, devono essere rideclinati, in qualche modo connessi con i valori particolari di ogni cultura, per fare in modo che il cambio culturale avvenga liberamente e autonomamente, al di fuori di tensioni etnocentriche colonizzanti, di modo che non ci siano ripercussioni sociali per chi sceglie di non praticare o subire MGF.
Senza negare giusta denuncia o qualunque forma di violazione del corpo altrui senza che le persone possano essere messe nelle condizioni di esprimere volontà e desideri, questo lavoro intende collocare il dibattito all’interno della complessa cornice dell’intersezionalità. Traendo nutrimento dalla prospettiva decoloniale abbiamo cercato di ampliare lo sguardo su un tema delicato che sarebbe riduttivo sottoporre all’interpretazione di un’unica lente e all’espressione di un’unica voce.
BIBLIOGRAFIA
CHAVARRO ANTURI Maritza. 2018. “Ablación genital en las comunidades indigena de Choco, Colombia”. Bogotá, Colombia: Revista Verba Iuris 14(41) pag.89-108.
FUSASCHI Michela. 2003. “I segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili”. Torino: Bollati Boringhieri. 182 p.
FUSASCHI Michela. 2011. “Quando il corpo è delle altre. Retoriche della pietà e umanitarismo-spettacolo”. Torino: Bollati Boringhieri. 159 p.
HENAO Juanita, PINEDA Claudia. 2010. “El proyecto Embera Wera. Una experiencia de cambio cultural para la eliminación de la ablación genital femenina y la promoción de los derechos de mujeres Embera de los Municipios de Mistrató y Pueblo Rico del departamento de Risaralda”. Bogotá: Instituto Colombiano de Bienestar familiar, Programa integral contra la violencia de género del F-ODM, Fondo de Población de las Naciones Unidas”
HERNÁNDEZ PALACIO Fallon Yamilet. 2015. “Ablación genital femenina (AGF): el proyecto Emberá Wera y su efecto en la comunidad Emberá Chamí de los Municipios de Mistrató y Pueblo Rico en Risaralda (2007-2014)”. Bogotá: Universidad Colegio Mayor de Nuestra Señora del Rosario, Facultad de Relaciones Internacionales. 156 p.
PASQUINELLI Carla. 2000. “Antropologia delle mutilazioni genitali femminili. Una ricerca in Italia”. Roma: AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo. 57 p.
SITOGRAFIA
https://elpais.com/elpais/2015/05/13/planeta_futuro/1431519344_024402.html
http://www.adir.unifi.it/rivista/2012/ghizzi/cap4.htm
“La ablación será parte del pasado”: lideresa indígena colombiana
http://www.adir.unifi.it/rivista/2012/ghizzi/cap4.htm
Dalla parola alla voce…
Anche di questo articolo parliamo a La Polvere della Battaglia su Radio Onda d’Urto nella nostra rubrica Fondi di Bottiglia: pensare decoloniale!
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