Pubblicato il 12.05.21 su olaamericana.info
di Silvia Fredi e Miria Gambardella
COLONIZZARE LE ALTERITÀ
La connessione tra le migrazioni e il colonialismo storico sono ormai state sviscerate abbondantemente: è in quel contesto che viene concettualizzata la razza e una gerarchia tra i popoli, che riflette la divisione del lavoro e delle risorse a livello mondiale secondo i dettami sempre più totalizzanti del capitalismo globalizzato. Questa idea “naturalizza, o cerca di farlo, le disuguaglianze sociali, storiche venutesi a determinare tra le razze, le classi, le nazioni” (Basso, 2000: p. 59). Sulla traiettoria di queste linee, disegnate dalle élite europee, si sono sviluppati quindi anche i movimenti migratori. Osservando il contesto italiano come spazio di immigrazione, il modello colonizzante si rivela sotto il nostro sguardo e attraversa trasversalmente l’esperienza migratoria in Italia.
Le soggettività migranti sono multiformi, e diverse sono le loro storie e i loro attaccamenti culturali. Quando le persone si muovono, oltrepassando i confini di ciò che è convenzionalmente assimilato alla normalità, creano spazi per rimettere in discussione l’assioma che vorrebbe far coincidere geografie e culture. Migrare significa abbandonare esperienze di sé per costruirne altre, talvolta auspicate, altre volte forzate, quasi sempre inaspettate. Per moltissime persone significa lasciarsi dietro famiglie intere, andare incontro a lavori mai svolti prima, imparare lingue, scoprire gusti che non sapevamo di avere. Migrare trasforma, in maniera radicale e improvvisa o in modo lento e impercettibile. Un* richiedente asilo approdat* senza documenti e inserit* all’interno del circuito dell’accoglienza sarà inevitabilmente sottopost* a un diverso grado e ritmo di trasformazione rispetto a chi può legalmente viaggiare per lavoro.
Una cosa che accomuna molte persone migranti è la difficoltà di raggiungere l’Italia, di regolarizzarsi e di costruire una vita degna. Il blocco dei flussi di entrata regolari, le restrizioni relative alla protezione internazionale, il legame a doppio filo tra occupazione e permesso di soggiorno, il razzismo istituzionale sono elementi che “la popolazione migrante” in arrivo in Italia ha in comune: precarietà e ricattabilità. Assistiamo inoltre a ripetuti tentativi di conformare le soggettività migranti a modelli eurocentrici di cittadinanza idealizzata, proprio mentre vengono privati di molti diritti cosiddetti civili.
Inquadrare l’altro da sé con le proprie lenti di lettura, oltre ad essere inevitabile, può servire ad attribuire significato ai suoi gesti. I problemi sorgono quando si passa da conoscere per capire a (credere di) sapere per controllare e dominare. La difficoltà sta nell’applicazione del proprio bagaglio interpretativo. Delineare processi identitari può partecipare alla costruzione di movimenti di rivendicazione per i diritti di popoli che si riconoscono sotto una stessa bandiera. C’è una grossa differenza tra forme di identificazione comunitarie autodeterminate e categorie identitarie escludenti e imposte. Colonizzare le alterità implica obliterarne la differenza per omologarla ai propri criteri di pensiero: qui ci proponiamo di argomentare, attraverso alcune esemplificazioni, come questo agito si ripercuota sulle soggettività immigrate presenti con i loro corpi in contesti non originari.
DIRITTI DI FRONTIERA, FRONTIERA DEI DIRITTI
“L’illegalità è una conseguenza dei confini, non la loro causa.”
(Khosravi 2019)
Yara è nata negli Stati Uniti, dove la famiglia si era trasferita per lavoro, è arrivata a Milano quando aveva un anno, il papà è siriano e la mamma di origini tedesche, oggi vive in Svizzera. Non parla una parola di inglese né di tedesco e l’unico passaporto che non ha è quello del paese in cui è cresciuta. Chi cresce in Italia con genitori stranieri vive sulla propria pelle tutte le contraddizioni dei processi di omologazione, a partire dal quadro giuridico.
La cittadinanza come categoria linguistica, giuridica e socio-economica crea un sentimento di appartenenza alla nazione, la quale ha bisogno di cittadini per costituirsi come attore geo-politico sulla sfera globale. Gli stati-nazione esercitano pressione a livello legale e sociale affinché le identità, personali e collettive, vengano definite in concordanza con la cittadinanza. Questo si traduce in un obbligo di dimostrare appartenenza e integrazione al paese indicato sul passaporto o, in assenza di documenti, presso il quale si chiede ospitalità. Poco importa dove ci si senta a casa, dove si abbia scelto di vivere o da chi ci separi il confine costruito con barriere fisiche e simboliche. Sotto il cappello giuridico della cittadinanza dobbiamo illuderci di sentirci uguali, anche quando i diritti non spettano ad ogni cittadin* allo stesso modo e ancor meno a chi cittadin* non è.
La persona migrante vive sul proprio corpo il paradosso di doversi conformare a un immaginario di cittadinanza ideale pur sapendo che non gli saranno mai garantiti gli stessi privilegi. Anche nel momento in cui dovesse accedere ai documenti che ne legalizzano il soggiorno dal punto di vista giuridico, si ritroverà ad affrontare discriminazioni basate sulla lingua, la religione, il colore della pelle e più in generale lo stile di vita condannato, nel migliore dei casi, a una perenne esotizzazione paternalista.
La soggettività migrante, così come la sua discendenza, diventano elementi perturbanti in quanto ambigui, propri di una condizione precaria e liminale. Il carattere ambivalente dell’identità migrante sfida i limiti di una categoria come la cittadinanza, che si rivela limitante a causa della sua tendenza essenzialista e semplificatrice. La discriminazione fa parte della costruzione identitaria della nazione: produce cittadini marcando un’opposizione tra “noi” e gli “altr*” tra “buon*” e “cattiv*”, tra legalità e illegalità, sicurezza e rischio.
Anderson definisce il nazionalismo come un “artefatto culturale” in cui l’invenzione di frontiere territoriali, unita alla sovranità, crea lo Stato. La persona migrante è definita per negazione, come non-appartenente al gruppo dominante e diventa un “non-soggetto sociale” o, per dirla con Khosravi, un “sotto prodotto, un residuo, diverso, indesiderato, pericoloso, contaminato, persino non umano” (Khosravi 2019).
Le rappresentazioni identitarie di frontiera, quelle che nelle identità nazionali stanno strette perché si sono lasciate contaminare da più culture, sono un esempio di una pratica sociale al margine e, per questo, potenzialmente minacciosa per le esigenze istituzionali perché mette alla prova categorie strutturali determinanti, quali appunto le idee di purezza, supremazia e superiorità (ideale, ma anche reale se si parla di diritti).
Migrare sfida i confini e tutto ciò che rappresentano, farsi attraversare dalla frontiera contribuisce a farne emergere la porosità. I copri migranti “incarnano” il limite nel momento stesso in cui aprono crepe nei muri che ergiamo a separarci dall’alterità.
Alcuni sociologi hanno evidenziato come la frontiera non serva per bloccare o annullare l’ingresso di persone straniere, bensì a disciplinare e plasmare questo flusso di manodopera, rendendo più ricattabile e disposto allo sfruttamento, esponendolo – con grande ipocrisia da parte dei paesi Europei auto-celebrati da secoli come culla dei diritti umani – a rischi e violenze.
“Il confine non è un fatto spaziale con effetti sociologici, ma è un fatto sociologico che si forma spazialmente”.
(Simmel 1998:531 in Poguisch 2018:45)
A partire dal 2013, anno dei naufragi più mediaticamente noti al largo delle coste italiane, lo Stato ha inserito all’interno delle sue retoriche dell’emergenza anche una sorta di sentimento umanitaristico, che ha visto anche protagoniste organizzazioni come Unhcr, Oim, Oil, di fatto degli specchietti per allodole la cui presenza dovrebbe garantire il rispetto per i diritti umani e per le procedure dettate dal Diritto Internazionale alle frontiere, cose che sappiamo non essere sempre rispettate. Inoltre, dietro questa maschera di umanitarismo continuano le violenze e i decessi sulla rotta balcanica e sulle Alpi, continuano i naufragi nel Mediterraneo e una serrata campagna giudiziaria, mediatica e politica contro organizzazioni di salvataggio e di soccorso ai migranti (dentro e fuori i confini italiani) è stata ormai normalizzata. I dispositivi di controllo messi in campo dai governi italiani degli ultimi decenni non servono né a bloccare realmente gli arrivi né tantomeno a salvare vite, anzi, vi è un uso strumentale di quelle numerose e quotidiane morti in mare: da un lato si criminalizza il soccorso, si continua a gridare all’invasione e si cerca di esternalizzare le frontiere tramite deprecabili patti bilaterali (con paesi instabili, autoritari e spesso in guerra) e non si fa nulla per evitare le morti sui confini, dall’altro si pretende che queste tragiche perdite servano da deterrente per chi vuole partire.
La frontiera quindi, permeabile e militarizzata, diventa zona di transito attraversando la quale, chi ce la fa, si trasforma in subordinato, in servo, in sfruttato. Cosa c’è di più colonialista di un continuo e gratuito approvvigionamento di schiavi?
SISTEMI DI ACCOGLIENZA E PROCEDURE DI ASILO
I vari legislatori che si sono susseguiti negli ultimi decenni hanno via via ristretto sempre maggiormente le possibilità di libero ingresso e di regolare soggiorno sul territorio italiano. Legando di fatto la regolarizzazione delle soggettività migranti ad un complicato e inverosimile processo di selezione lavorativa previa (così come avviene poi per quanto riguarda il mantenimento del titolo di soggiorno, che è legato prevalentemente al contratto di lavoro o, al limite, alla famiglia – così come viene cristallizzata dall’ottica italiana, ovviamente), negli ultimi anni, quasi tutte le persone migranti che sono arrivate nel nostro paese hanno quindi avuto l’unica opzione di presentare domanda di Protezione Internazionale. Questo garantisce (quantomeno sulla carta) di non essere respint* alla frontiera e di accedere ad un primo documento di soggiorno che permette la permanenza della persona almeno fino alla compiuta elaborazione della richiesta di asilo.
Con questa sommaria introduzione di sapore legale, arriviamo al tema del sistema di accoglienza che, in Italia, prende in carico tutt* coloro che risultano formalmente Richiedenti Protezione Internazionale. Stiamo parlando dei servizi CAS, SIPROIMI, dei grandi centri di accoglienza, dei progetti di micro-accoglienza, di tutta quella costellazione molto variegata di servizi dedicati che si è andata a creare con la fantomatica “emergenza migratoria” che, così si dice, ha colpito l’Italia verso la metà del decennio scorso. Per essere un’emergenza sta durando parecchio.
All’interno di queste strutture, solitamente private e/o gestite da realtà varie del settore sociale, ritroviamo un atteggiamento riconducibile al colonialismo e cercheremo qui di argomentare questo nostro pensiero. Le tempistiche di permanenza all’interno dei servizi sono legate alla procedura formale della RPI e dunque ricalcano più o meno la durata della stessa. Generalmente si parla di almeno un paio di anni in media. In questi 2 anni, un’ipotetica (ma molto facile da incontrare nella realtà) persona viene inserita in un alloggio da qualche parte in Italia, deciso in prima istanza dal Ministero degli Interni che smista “pacchetti di migranti” alle varie Prefetture che poi a loro volta ripartiscono i corpi de* richiedenti asilo sulla base dei posti disponibili sul territorio specifico.
Al colloquio di ingresso nei servizi, non è raro trovarsi di fronte a persone tra i 20 e i 30 anni che non sanno esattamente dove si trovano. Lo stesso vale nei servizi dedicati ai minorenni. Nel momento in cui si entra in Italia e si diventa RPI, la propria volontà, il proprio progetto di vita, le eventuali reti di contatti nel paese di arrivo e buona parte dell’autodeterminazione delle soggettività migranti (che, ricordiamolo, arrivando spesso a piedi o con mezzi di fortuna dall’Asia o dall’Africa, non sono certo prive di agentività o convinzione) vengono messe in stand by. A dimostrazione di questo, chiunque abbia lavorato in questo tipo di servizi potrà testimoniare un numero non indifferente di persone che si sono poi allontanate volontariamente dai centri di accoglienza, per proseguire il proprio percorso verso altre zone d’Italia o verso altri paesi europei, come era nelle loro intenzioni migratorie. In questo contesto mettiamo anche in evidenza come l’assegnazione del posto letto non consideri assolutamente le necessità reali delle persone: si viene prima di tutto divisi secondo il genere, assegnato “a vista” su base ovviamente binaria, senza nessuna attenzione per le soggettività che potrebbero far parte di una minoranza o riconoscersi in identità non conformi. Pochissimi sono i progetti dedicati alle soggettività LGBTQ+ della penisola.
Durante i mesi/anni di permanenza nelle strutture vengono – nei progetti migliori e più virtuosi – curati diversi aspetti: quello sanitario e quello dell’integrazione sociale e lavorativa, oltre a quello prettamente legale.
Riguardo l’accompagnamento sanitario offerto dalle strutture, ancora più accentuato si può percepire un atteggiamento etnocentrico orientato alla presa in carico da parte della medicina occidentale, senza – di nuovo – considerare, nella maggior parte dei casi, i riferimenti identitari, culturali ed etnici dell’utenza che sono connessi alla performatività dei sintomi. Molto spesso inoltre, e in particolare quando si tenta di trattare disturbi della psiche, all’interno delle strutture avviene una sorta di spinta coercitiva al trattamento secondo schemi appartenenti alla nostra tradizione: che si tratti di farmaci o di interventi di psicoterapia, è ancora molto difficile riscontrare la presenza di approcci terapeutici di orientamento etnoclinico e viene spesso imposta l’adesione alla cura. Allo stesso modo ci sono casi in cui le strutture arrivano a negare l’accesso a certi tipi di terapia o li disincentivano per convinzioni personali o politiche aziendali volte al contenimento delle spese. Il corpo migrante non ha possibilità, molto spesso, di autodeterminarsi e prendere decisioni consapevoli sulla propria salute, a causa anche e non raramente della mancanza di mediazione linguistico culturale adeguata.
Per quanto concerne i cosiddetti “percorsi di integrazione”, all’interno dei servizi di accoglienza per RPI si tratta di attività che si possono raggruppare sommariamente in: formazione, volontariato, avviamento al lavoro. Ovviamente i progetti che includono questo tipo di prestazioni con una buona professionalità non sono la totalità. All’utenza si offre la possibilità di imparare la lingua italiana: in molti centri la partecipazione alle lezioni non è facoltativa ed è noto l’uso delle decurtazioni dal Pocket Poney (una somma di circa 2,50 al giorno per persona) per disincentivare le assenze. Altro punto dolente è rappresentato dalle attività di volontariato, pensate e presentate come “lavori per la comunità”. Senza voler assolutamente sminuire il valore del volontariato, che come Associazione di Promozione Sociale promuoviamo e viviamo in prima persona, cerchiamo però di contestualizzare. Ad una persona adulta che non può di fatto lavorare perché la sua situazione amministrativa di soggiornante in Italia non è definita, viene chiesto (caldamente consigliato e talvolta imposto) di lavorare gratuitamente a cadenza settimanale, con orari e mansioni stabilite da altri, sostenendo che si tratta di una forma doverosa di ringraziamento alla società. Parafrasando le retoriche, si chiede alle soggettività migranti di riparare un danno: il danno economico certamente, ma anche quello della destabilizzazione dei contesti locali con la presenza dei loro corpi che, essendo visibili, devono essere visti “al lavoro” e non al parco a giocare a calcio mentre attendono di capire quale forma di sfruttamento riserverà loro il futuro.
In conclusione, abbiamo rilevato una mentalità coloniale all’interno dei servizi di accoglienza che passa spesso da ottime intenzioni da parte di chi opera nel settore anche con impegno e serietà. Gli atteggiamenti paternalistici, il così detto “maternage”, l’autoritarismo e le decisioni prese su persone senza considerarne il consenso, la categorizzazione dell’utenza sulla base degli schemi mentali eurocentrici e patriarcali e i grovigli amministrativi che di fatto costringono molte persone all’inoccupazione e all’impossibilità di provvedere alle responsabilità famigliari (spesso chi emigra lo fa lasciando alle spalle famiglie e comunità che contano sul suo contributo), innescano un processo di infantilizzazione che permea i servizi di un atteggiamento assistenzialista e assimilatorio. C’è una forte spinta di controllo, di disciplinamento in prospettiva espulsiva o assimilatoria e manca totalmente una visione intersezionale delle soggettività; con queste criticità, per molt*, la lunga permanenza nei centri rappresenta un freno più che un’opportunità di progredire e portare a termine i propri obiettivi.
ASSIMILAZIONE E SINCRETISMO CULTURALE
Secondo i dati della “Commissione per le adozioni internazionali” che fa capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nell’anno 2018 in Italia sono state concluse 1130 pratiche di adozione internazionale. Da sommare a questa cifra ci sono poi le adozioni nazionali, che sarebbero circa 1000 all’anno e sono gestite dai Tribunali per i Minori. L’adozione nel nostro paese è concessa unicamente alle coppie sposate eterosessuali e solo in rarissimi e specifici casi a persone singole, delegittimando e discriminando altri tipi di famiglia.
Il fenomeno delle migrazioni spesso configura rapporti familiari transnazionali, legami e dinamiche distribuite su differenti territori. Molte persone migranti poi, nelle nazioni dove si stabilizzano, creano delle reti di sostegno con connazionali e autoctoni, che talvolta rappresentano vere e proprie forme di famiglia, contesti di cura e di supporto. Culture e sottoculture hanno prodotto diversi modelli di famiglia, raggruppando persone senza alcun legame sanguineo sulla base delle necessità emotive e di sopravvivenza, rielaborando ruoli e dinamiche famigliari.
Le famiglie adottanti, dovendo dimostrare di essere all’altezza, vengono sottoposte a particolare pressione per aderire ai canoni dominanti della società e la discendenza corre il rischio di ritrovarsi intrappolata
Weil segnala che “anche quando gli adottanti fanno grossi sforzi per preservare le eredità culturali dei figli”, la maggior parte mantiene raramente elementi della cultura di origine.
(Weil 1984:277 in Marre 2004:8)
Le adozioni internazionali enfatizzano quei processi di graduale assimilazione culturale ai quali sono sottoposte le persone migranti all’arrivo in Italia. La Convenzione sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale dell’Aja del 1993 suggerisce che quando si interrompe ogni rapporto con le famiglie di origine le adozioni riscontrano maggiore successo.
Marre sottolinea come, a differenza della Spagna in cui “le famiglie biologiche sono stigmatizzate e le relazioni con esse silenziose, tabù” ad Haiti “entrare in contatto con il luogo d’origine serve a ridurre il più possibile quel che c’è di sconosciuto, fantasmatico in quel “bagaglio” (Howell 2002) che la maggior parte di famiglie adottanti mette sulle spalle ai propri figli”.
(Marre 2004:8)
Allo stesso modo, sotto le mentite spoglie dell’integrazione, a chi richiede il permesso di soggiorno viene chiesto di aderire alle strutture sociali del paese di arrivo facendosi soggetto passivo di un rapporto di potere univoco che non prevede flessibilità da parte di chi accoglie, ma solo da chi è accolt*. La discendenza adottata da genitori italiani cresce con pochi o inesistenti rapporti con i costumi dei luoghi di origine, senza che questo risparmi chi non rappresenta il modello estetico dominante dal dover fornire delucidazioni sulla propria provenienza, portando figli* di italian* cresciut* in Italia a dover sistematicamente rispondere alla fatidica domanda “da dove vieni?” e a essere guardat* con perplessità quando la risposta è una provincia conosciuta e non un posto esotico.
Se le adozioni internazionali possono rappresentare una forma estrema di assimilazione culturale, le seconde generazioni incarnano tutte le complessità di un fenomeno fatto di numerose sfumature, sperimentando contaminazioni culturali difficilmente classificabili nelle limitate frontiere delle identità nazionali.
CONCLUSIONI
L’importanza dell’esercizio intellettuale di guardare oltre risiede proprio nella sua capacità di far vacillare queste categorie, il loro uso ed abuso e la loro abitudine di plasmare la realtà socio-politica e farsi strumenti normativi.
Foucault rivendica il lato pratico della soggettività che si manifesta nelle relazioni sociali. Nell’alternativa creata dall’incontro riconosco la parzialità e la precarietà della mia rappresentazione identitaria. Nel momento in cui cessa di essere essenzializzante, l’identità smette di limitarsi alla prima persona e include forme di alterità e differenza. Per Ricœur identità e diversità partecipano, insieme, nella costruzione narrativa del «sé stesso».
Per Sayad la condizione migrante è il luogo controverso di una “doppia assenza”: non appartiene più alla terra d’origine, ma neppure a quella di accoglienza. È però anche il luogo di una doppia presenza. Brubaker e Cooper ci consigliano l’identificazione come termine “attivo e processuale” alternativo a un’unica e inossidabile identità da conquistare nei limiti dei confini dello spazio e del tempo. Sostituire la cittadinanza con l’atto di identificarsi significa accettare l’arbitrarietà della frontiera come componente fondamentale dell’interazione umana e restituire potere d’azione a chi, spostandosi, “incarna” il confine con il proprio corpo (Khosravi 2019).
Relazionandoci, siamo alla ricerca costante di riconoscimento, di un riflesso nello sguardo altrui, che ci riveli quella parte di noi che ci è dato conoscere esclusivamente nello scambio. L’idea di un bisogno di riconoscimento intrinseco e fondamentale è legata alla sacralizzazione delle origini.
L’antropologia ha scavato in profondità nel concetto di identità. Secondo lo studioso Remotti l’identità è sempre un prodotto di costruzione, sia sul piano sociale che individuale, che si basa su due azioni fondamentali: la separazione e l’assimilazione. Partendo da questo presupposto quindi, ogni identificazione rappresenta una “rinuncia (almeno parziale e temporanea” alla molteplicità, un’accettazione (entusiastica, forzata o dissimulata) della particolarità”(Remotti 2001: 19). Questo processo, unito alla spinta universalistica ed egemonizzante dello sguardo e dei valori occidentali, finisce spesso per trasformarsi in rifiuto, senso di superiorità e addirittura alla negazione delle differenze.
“Il processo di assimilazione è funzionale all’eliminazione: non si mangia subito e direttamente l’alterità, lo straniero; lo si accudisce, lo si assimila culturalmente, lo si socializza fino al punto di consentirgli di farsi una sorta di famiglia. A quel punto di assimilazione, lo si fa fuori; anzi, lo si ingoia nel “noi”.”
(Remotti 2001:83)
Nel contesto italiano è proprio questo ciò che accade alle soggettività e alle collettività migranti: da un lato avviene una separazione netta, invalicabile e insuperabile nemmeno nell’arco di generazioni (gli italiani figli o nipoti di migranti sono ancora, nonostante la cittadinanza e il luogo di nascita, percepiti come estranei), dall’altra parte – per chi è disposto a conformarsi trasformando la sua identità in qualcosa di vicino e funzionale alla nostra – si disciplina, si omologa e per quanto possibile si assimila.
“Ma il primo passo che occorre compiere è esattamente quello di uscire da una logica “puramente” identitaria ed essere disposti a compromessi e condizioni che inevitabilmente indeboliscono le pretese solitarie, tendenzialmente narcisistiche e autistiche dell’identità. Uscire dalla logica identitaria significa inoltre essere disposti a riconoscere il ruolo “formativo”, e non semplicemente aggiuntivo o oppositivo, dell’alterità.”
(Remotti 2001:99)
Le possibilità che questo cambiamento avvenga si giocano tutte sul superare questa postura oppositiva e suprematista, in altre parole colonialista, nei confronti delle identità altrui. Problematizzare il proprio posizionamento senza ergerlo a paradigma universale e normativo; riconoscere – senza assimilare – le molecole identitarie rappresentate dai migranti nel nostro paese: sono le premesse necessarie ad una decolonizzazione delle migrazioni. Tutto ciò si renderà possibile solo con la consapevolezza del proprio privilegio e degli assi di potere che attraversano la società, e restituendo voce e autodeterminazione alle soggettività migranti.
BIBLIOGRAFIA
ANDERSON Benedict. 2006 [1983]. “Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism”. Londra: Verso.
BASSO Pietro. 2001. “Razze schiave e razze signore. Vecchi e nuovi razzismi”. Milano: Franco Angeli. 145 p.
BRUBAKER Rogers e COOPER Frederick. 2000. “Beyond identity”. In Theory and Society. Paesi Bassi: Kluwer Academic Publishers. 47 p.
FOUCAULT Michel. 2008. “Discipline, poteri, verità. Detti e scritti (1970-1984)”. Torino: Marietti. 264 p.
KHOSRAVI SHAHRAM. 2019. “Io sono confine”. Milano: elèuthera. 240 p.
MARRE Diana. 2004. “La adopción internacional y las asociaciones de familias adoptantes: un ejemplo de sociedad civil virtual global”. Scripta Nova. Volumen: VIII, Nº 170, 1-17.
POGUISCH Tania. 2018. “I confini fantasma dell’Europa” in Decolonizzare le migrazioni. Razzismo, confini, marginalità, AAVV Milano – Udine: Mimesis Edizioni. 195 p.
REMOTTI Francesco. 2001. “Contro l’identità”. Roma-Bari: Editori Laterza. 108 p.
RICŒUR Paul. 2016. “Sé come un altro”. Milano: Jaka Book. 494 p.
SAYAD Abdelmalek. 2002. “La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato”. Milano: Raffaello Cortina. 424 p.
SITOGRAFIA
Commissione per le adozioni internazionali.
Convenzione sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale dell’Aja del 1993.
Dalla parola alla voce… dalla collaborazione con La Polvere della Battaglia nasce la rubrica mensile Fondi di Bottiglia: Pensare Decoloniale in onda su Radio Onda d’Urto!
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